LA CITTÀ SOSTENIBILE: L’ENERGIA NEL CONTESTO URBANO E LE PROSPETTIVE PER LE ENERGIE RINNOVABILI

 

Paolo Degli Espinosa

 Discorso di presentazione dell’Ing. Paolo Degli Espinosa in occasione della nomina a Vicepresidente di ISES ITALIA tenutosi presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università "La Sapienza" di Roma il 2 dicembre 1999.

Nell’introdurre questo intervento, propongo di munirsi di due qualità per affrontare le tematiche generali: passione, perché ci vuole, e intelligenza, perché ci vuole. La passione, chi ce l’ha ce l’ha, non si può dare; invece l’intelligenza è qualche cosa che attiene anche alle comunicazioni e si può risvegliare, si può attivare. Noi abbiamo bisogno di un tipo di intelligenza in buona parte nuova perché deve muoversi su piani diversi e cioè sul piano mondiale, europeo, paesi in via di sviluppo, sul piano nazionale e sul piano locale; l’intelligenza deve essere capace di muoversi su tutti questi livelli e connetterli, cosa che non sempre si è fatta. C’è il vecchio slogan di Legambiente: pensare globalmente, agire localmente. Io propongo questo: pensare e agire globalmente, pensare e agire localmente. Bisogna fare tutte queste cose, e non è facile. La seconda novità che si richiede è un atteggiamento multidisciplinare e capace di integrazione: se ne parla da molto, ma il punto è che adesso bisogna averlo, bisogna avere progetti e azioni multidisciplinari integrate; questo corrisponde al fatto che, oggi, la questione energetica e ambientale viene trattata con una certa "separatezza" rispetto all’insieme delle decisioni economiche, per cui l’economia tiene poco conto della questione energetica e ambientale; è vero anche il reciproco, per cui la questione energetica e ambientale non si presenta come multidisciplinare e si pone come un problema a sé; questo problema si nota a tutti i livelli, per esempio a livello mondiale nella separatezza tra i grandi impegni di Rio e Kyoto rispetto agli incontri sull’economia e sul commercio mondiale (si vede anche a Seattle).

Ero a Kyoto nel ‘98, con la delegazione guidata dal ministro Ronchi; è stato un grande confronto, una battaglia in cui l’Europa ha segnato dei punti. L’Europa è leader nella questione effetto-serra; se non ci fosse stata l’Europa non si faceva niente, a Kyoto. Uscivano giornali americani che parlavano di distruzione dell’industria, e noi abbiamo ottenuto questo alto compromesso 8-7-6: l’Europa compie, rispetto al 1990, una riduzione pari a 8% , gli Stati Uniti - 7% e il Giappone - 6%, obbiettivi da attuare entro il 2010, superando grosse difficoltà; tuttavia questo accordo di Kyoto, anche se è stato giudicato come insufficiente, non è stato ancora ratificato (si richiede una quota del 55% dei paesi industriali). In realtà viene visto, dai parlamentari di diversi paesi, Stati Uniti in particolare, come una difficoltà per l’economia, quindi come una cosa che serve per quelli che vogliono salvare l’ambiente, che però mette in difficoltà l’economia. Quindi questo è un problema legato a quello, prima citato, della multidisciplinarità; bisogna fare una integrazione e bisogna farla anche dentro i paesi.

Allora, propongo un ragionamento che tiene conto di tre temi: prodotti, contesti e soggetti. Questo è un esempio di un atteggiamento multidisciplinare. Partiamo dall’attualità: primo, l’effetto-serra. L’effetto-serra oggi è una realtà: c’è un dibattito che si sviluppa da anni sulla capacità dei modelli di prevedere l’effetto-serra, e ci sono scienziati che dicono "non è vero, non c’è l’effetto-serra perché il mare agisce in un certo modo, le nuvole agiscono in un certo modo, l’aumento della CO2 migliora le condizioni per le foreste, eccetera". Il punto è però che sono ormai disponibili misurazioni oggettive. Su "Nature" di giugno di quest’anno ci sono dei dati che cominciano ad attribuire all’intervento antropogenico un quarto di grado; non è tanto, un quarto di grado, o mezzo grado, però lo attribuiscono all’uomo e questo calcolo va d’accordo con il fatto che negli ultimi dieci anni ci sono state le nove stagioni più calde degli ultimi cento anni, fatto statisticamente impressionante. Questo lo dicono i meteorologi ed è difficile attribuirlo a cause normali; naturalmente si sa che ci sono le glaciazioni, le epoche interglaciali, esistono delle tendenze naturali ben conosciute e considerate ma, tenuto conto di tutti questi elementi, resta un pezzetto che viene attribuito all’azione dell’uomo e secondo me è destinato a crescere. Io credo che ormai siamo dentro, o quantomeno all’inizio, delle conseguenze attribuibili all’effetto-serra. Anche in presenza di una quota di incertezza la base del ragionamento è comunque il noto ragionamento "no regret", secondo cui agisco come se fossi malato: la mia malattia - forse - è la tale malattia e prendo la medicina corrispondente, anche se non sono sicuro, con una cautela in più, che le azioni decise producano benefici anche se il modello diagnostico non fosse esatto. Le cose, comunque, stanno peggiorando e ogni anno ci saranno calcoli più precisi, che diranno che siamo dentro l’effetto serra.

Vorrei aggiungere qualcosa sull’attualità, su quello che sta succedendo a Seattle: l’ambientalismo fa manifestazioni insieme ad altre componenti sociali e culturali. Qual’è, il problema? E’ che il WTO - World Trade Organisation - sembra interessato a fluidificare tutti i commerci senza però mettere in campo strumenti di controllo in particolare per la questione ambientale. Mi domando come sia possibile! Il WTO non può eludere Kyoto, altrimenti avremmo movimenti di merci, movimenti di combustibili, movimenti senza controllo ambientale; ci potrebbe essere per esempio un incentivo per fare nei PVS produzioni non ambientali e poi distribuirle in giro per il mondo.

Nel mio modo di ragionare do’ particolare rilievo ad una dimensione prevalentemente europea e a quella locale. Ci sono tante dimensioni, mondo, Europa, Stato, locale, ma quelle che mi sembrano più interessanti, più propulsive, sono la dimensione europea e la dimensione locale. Per il livello Europa, è da notare che le iniziative italiane sull’ambiente provengono di solito dall’Europa, che come già ricordavo ha svolto una funzione molto importante a Kyoto. Altro gran problema di Kyoto è che i paesi del terzo e quarto mondo, erano presenti ma non impegnati. Una cosa che faceva molto effetto. Molto effetto. Quando parlava il rappresentante della Cina, in una sala con mille persone, ciascuna delle quali poteva intervenire e dopo di lui parlava magari il rappresentante delle isole Maurizio, apparentemente era tutto uguale; però quando parlava il cinese pensavo che dietro c’erano un miliardo e quattrocento milioni di persone! E questi dicevano "voi non avete tenuto conto di noi, e noi non possiamo pagare per i vostri errori, non abbiamo questa intenzione". Nei corridoi veniva ricordato a noi industrializzati, "voi avete fatto tutto, avete accumulato, avete tecnologie, siete ricchi, avete fatto la vostra ricchezza distruggendo pezzi di natura, adesso c’è l’effetto-serra e volete imporre a noi le regole dell’ambiente. Pagate voi, ma noi non paghiamo!".

 

I paesi sviluppati sono un quinto del mondo e consumano quattro quinti dell’energia.

Viceversa, i PVS sono 4/5 del Mondo e consumano 1/5. E’ vero, comunque, che il contributo d’impatto dell’effetto-serra dei paesi in via di sviluppo è in aumento, e il loro impatto è superiore a 1/5 ed è crescente. Di conseguenza, non si può dire "noi industrializzati andiamo avanti, provvediamo noi". I paesi in via di sviluppo aumenteranno i loro consumi, aumenteranno la loro ricchezza, che, giustamente, aumenta in media del 4-5% all’anno (quella dei paesi industrializzati aumenta del 2% all’anno); sempre "giustamente" aumenteranno i loro consumi energetici che saranno presto il 50% del totale e aumenteranno i loro impatti effetto-serra; e loro non sono firmatari dell’impegno di Kyoto, che per tutti gli industrializzati vale un 5% in meno al 2010 rispetto al 1990. Per gli altri paesi non si sa. E’ vero che ci sono i famosi diritti commerciabili per i quali comunque c’è uno standard da osservare altrimenti gli Stati Uniti andrebbero a fare prevenzione di effetto-serra fuori e in casa loro non farebbero niente. Ma bisogna capire bene che le azioni esterne dei paesi industrializzati vanno calcolate sul conto degli impegni dei paesi industrializzati; cioè se io spendo un miliardo in Russia e evito gas di serra, il risultato va sul conto italiano, ma non si può contare due volte, quindi mentre lo si conta come italiano non lo si può contare anche come diminuzione dell’impatto-serra della Russia.

(NASO): E’ la stessa cosa che accade tra prodotto interno lordo e prodotto nazionale lordo, se lo fai altrove rimane a carico tuo.

(CUZZANITI): Però sulla scala globale è molto più efficiente, spendere in Russia che non in Italia.

(DEGLI ESPINOSA): Non c’è dubbio. E’ efficiente. Siccome ciò di cui si discute è l’effetto e quindi la CO2 sottratta, se si va in Russia e si sottrae un milione di tonnellate di CO2 vuol dire che costerà meno.

(CUZZANITI): Con quel miliardo sottraggo in Russia un milione di tonnellate, in Italia ne avrei sottratto cinquecentomila, perché le altre cinquecentomila già l’ho fatto nel passato.

(DEGLI ESPINOSA): Condivido tutto, ma siccome io sono impegnato - infatti firmo a Kyoto - a sottrarre un milione di tonnellate, allora, lo vado a sottrarre in Russia, spendo la metà che se lo avessi fatto in Italia, e poi vado ai controlli degli impegni italiani e sono a posto; però, con questo principio, il contributo dei PVS all’effetto-serra resta pieno.

(NASO): Quello che Lei dice è un auspicio, ma come si può pensare che i responsabili attuali della politica, per esempio della Cina, che ha una politica di sviluppo dell’ordine del 6-7% all’anno, non facciano ricorso a tutto il carbone che hanno che è anche la principale risorsa per alimentare energeticamente questo sviluppo?

(DEGLI ESPINOSA): Vero, ma diamo un’occhiata prima all’Europa, poi trattiamo la questione dei paesi in via di sviluppo, perché anche noi come Europa abbiamo un sacco di problemi. E’ stato presentato a Bruxelles un modello previsionale abbastanza avanzato energetico, ambientale, ed economico, intitolato "EU Energy and Emissions Outlook to 2020" i cui risultati sono condensati in due volumi, uno sull’energia, e uno sugli aspetti economici; è basato su un’analisi di tendenza ed è completato dalle analisi delle correzioni possibili. L’impegno europeo per Kyoto, se stiamo all’analisi di tendenza, non verrebbe rispettato. Per rispettarlo occorre che i paesi recepiscano il trattato e quindi gli diano strumenti; comunque in Europa il recepimento ci sarà; mi preoccupano gli USA.

Nello studio hanno considerato costante il rapporto tra energia e ricchezza, questo perché la tendenza attuale è questa, e naturalmente si può modificare; l’Europa è stata bravissima negli anni ‘80, quando aumentava la ricchezza e l’energia usata era costante; negli ultimi anni è un po’ peggiorata, ha cominciato a consumare di più con aumenti dell’1% all’anno; ma se si interviene, si può, per esempio, avere un vantaggio di efficienza dell’1 % all’anno; infatti, è stato sperimentato come sottrarre l’1% di consumi, operando sull’efficienza.

L’elettricità invece cresce sempre perché nell’impiego si presenta pulita; televisione, informatica, macchine elettriche, ecc.; quindi c’è una previsione di un aumento dell’elettricità. Poi c’è il settore trasporti: i trasporti sono un settore particolare, sono una specie di tigre, difficile da domare. I trasporti crescono e solo verso il 2020 smettono di crescere. Perché, hanno spiegato i modellisti, nel 2020 saremo così pieni di automobili da provocare la congestione totale; però questo succederebbe nel 2020, cosa inaccettabile sia per la sostenibilità che per la qualità del vivere.

In termini di primary energy consumption, l’Europa appare come un paese che, anche a lunga distanza, aumenta dell’1% all’anno, non siamo disastrosi. L’europeo consuma 3,8, tep/anno, ma un americano 8.

Per il capitolo power and steam generation, si prevede una dominanza del gas; l’Europa sicuramente importerà gas, e noi italiani siamo dentro questa strategia del gas, c’è un po’ di carbone e un po’ di rinnovabili; da notare però che, contrariamente a opinioni correnti, le rinnovabili possono essere portate, entro il 2010, alla stessa dimensione del carbone. Alcuni dicono: "Eh, ma tanto cosa vuoi che possano fare le rinnovabili!", ma sbagliano. Da parte mia, sono a favore di una strategia gas - rinnovabili - uso razionale e si vede che le rinnovabili, tra il 2000 e il 2010, diventano importanti; oggi non lo sono, ma entro il 2010 diventano importanti. Poi c’è il 2010¸ 2020, in cui si prevede che cresca il carbone; sempre secondo questi modellisti, naturalmente. Questo è dovuto al fatto che ci saranno nuove tecnologie di utilizzo del carbone. Lascio a loro la responsabilità di questa previsione. Secondo il modello, successivamente le rinnovabili non crescono tanto.. quindi i modellisti scommettono sulle nuove tecnologie del carbone.

C’è poi l’analisi delle emissioni, la CO2: se si parte da 100, nel 1995 per il mondo si ha 99 poi 107 poi 114; la tendenza di base, quindi senza recepimento del protocollo, senza interventi, è ad aumentare; l’Europa nel 2010, fatto 100 il valore di partenza, sarebbe a 107, mentre dovrebbe diminuire di 8; quindi c’è in mezzo un 15%, non poco.

Infine, il trasporto; anche in futuro, giganteggia ed è tanto rilevante che va considerato per conto suo.

Si assisterà ad un aumento della efficienza delle automobili. Se uno sta tranquillo ad aspettare che la tecnologia faccia il suo corso, ha una base-line che aumenta poco. Se uno non fa niente, rispetto al 1990, aumenta del 25 % al 2010 cioè dell’1% all’anno. Se uno si riferisce all’accordo UACEA allora l’aumento al 2010 è contenuto a 115.

Prima di parlare dei PVS, voglio fare un discorso di origini. Bisogna pur domandarsi perché siamo arrivati a questo punto, cioè perché siamo arrivati al 2000 e abbiamo tutta questa ricchezza industriale, perché di questo si tratta, e abbiamo tutti questi guai. Il 2000 richiede un po’ di bilancio su un arco di 200 anni di esperienza industriale; ma guardiamo solo le ultime due generazioni: i nostri nonni, in generale, non avevano l’automobile, i nostri genitori forse sì, e noi ce l’abbiamo. Quindi l’automobile è stata distribuita nel corso di sole due generazioni e vorrei un po’ riflettere su questa ricchezza industriale, che esiste e non è nemmeno tanto rinunciabile. Vorrei vedere chi è disposto a dire "mi privo della mia automobile, o del frigorifero...". Ma da dove viene questa ricchezza, e con essa il problema?

Per rispondere, da circa 20 anni propongo un’analisi basata sull’analisi della rivoluzione fordista. Di solito le analisi si basano sulla rivoluzione russa, sulla rivoluzione cinese; queste rivoluzioni, importantissime, sono state rivoluzioni sostanzialmente "distributive" sul piano sociale e hanno prodotto dei diritti di grandi popolazioni a "partecipare", a non essere colonizzate, ad avere il comando sulla propria ricchezza, a svolgere ruoli autonomi rispetto ai paesi ricchi, ma non sono state rivoluzioni tecnologiche, nell’insieme. Le rivoluzioni tecnologiche che a noi interessano sono state la rivoluzione francese e poi la "rivoluzione di Ford". Ma cosa ha fatto Ford? Già nel 1910 ma soprattutto negli anni successivi ha fatto una proposta secca, che mi meraviglia ancora, quella di dare a tutti gli operai 5 dollari al giorno: 5 dollari al giorno quale paga minima di una fabbrica di auto Ford, che vuol dire salari di 1500 dollari all’anno. Ford faceva un’automobile che costava 1000 dollari, la famosa T; Ford diceva: "io faccio un solo tipo di macchina," poi diceva "i compratori possono scegliere qualsiasi colore ... purché sia nero!"; quindi lui produceva "una" macchina: è bellissimo, sul piano della rivoluzione industriale, perché nasce l’auto di serie. E un operaio di Ford poteva comprare una macchina di Ford e questo succedeva solo lì, e lavorava otto ore. Ford ha impiegato largamente la tecnologia, il Taylorismo, e tutto quello che c’era, ma ha dimostrato di avere intelligenza sociale, perché avrebbe potuto, dire "faccio la catena di montaggio, etc..." e pagare gli operai un 10% in più degli altri. Il sindacato non avrebbe potuto dir nulla perché gli dava la paga sindacale più un 10%. Lui ha dato di più, ha circa raddoppiato e gli altri costruttori industriali erano preoccupati. Praticamente, l’operaio di Ford prendeva questi soldi e dopo un po’ si comprava la macchina, e sicuramente riceveva anche delle possibilità di rateazioni. Era proprio l’idea di Ford, capitalista socialmente espansivo, e non socialmente chiuso. La sua filosofia era: "io sono ricco, voglio arricchirmi di più, voglio fare automobili e voglio che tutti le comprino...e non solo i miei "amici" che sono, tutt’al più, il 5% degli Stati Uniti. No, le deve comprare il 90% degli Stati Uniti; e allora gli do i salari necessari per comprarle". E’ il modello fordista, il modello vincente. Cosa è successo? Che, appunto, gli americani si sono comprati l’automobile, cosa che è stata poi trapiantata in Europa, dopo la seconda guerra mondiale. In particolare in Italia con la FIAT cinquecento, che costava cinquecentomilalire, e, fatti i conti, un operaio si poteva comprare la cinquecento e se la comprava, giustamente. Praticamente è stato creato un oggetto fordista, un oggetto puramente tecnologico, che però si deve studiare in modo multidisciplinare per capirne tutta l’importanza. E’ economico, è legato alla qualità della vita, è legato alla mobilità, produce danno ambientale, produce occupazione, c’è tutto; e da qui parte tutto; è l’auto, non sono i treni, che alzano questi consumi di energia, queste emissioni di CO2. E’ difficile intervenire perché c’è questo carattere multidisciplinare, perché il compratore di auto se ne va in giro in auto: è una abitudine difficilmente reversibile.

Rimane da dire: "miglioro l’auto" ma secondo me non basta. E’ necessario, ma non basta. Vale per tutto, ma per l’auto, che è il "consumo-tigre", non basta. Miglioro questo edificio, miglioro i termosifoni, miglioro le lampadine, e miglioro anche l’auto, un fatto tecnologico di grande interesse. Se però analizziamo l’auto in modo multidisciplinare, andiamo subito alla questione della città, perché la mobilità individuale ha prodotto un errore molto grave, cioè l’errore di pensare che non ci fosse più bisogno di programmazione urbana, "tanto c’è l’automobile". Chi ha seguito un po’ la forma delle città americane, sa che le più vecchie erano città di tipo inglese; poi con i tram si sono formate a stella perché c’erano le linee radiali di tram e si costruivano con quella forma. Poi quando è venuta l’automobile le speculazioni edilizie sono andate su alla rinfusa, e adesso negli USA non esiste neanche una forma urbis, tolte le vecchie città. Nelle nuove città la downtown non c’è, perché le città e la vita dell’individuo sono state immaginate e realizzate, di fatto, intorno a questa mobilità dell’individuo che però produce molti problemi.

Quindi adesso, nel 2000, dovremo cominciare a fare il bilancio del fordismo, e dovremmo fare una riflessione postfordista, che si può fare solo a partire da una piena coscienza della rivoluzione di Ford. Questa coscienza non è diffusa. Ford ha fatto una proposta ai soggetti della società industriale, una proposta multidisciplinare, non gli ha proposto solo un’automobile, gli ha proposto anche un patto salariale e di consumo del tipo: "io faccio prodotti su larga scala e tu hai un salario che ti permette di comprare questi prodotti". Poi basta, nessun altro deve intervenire, questo è il punto, la programmazione non è necessaria, perché tanto io ti vendo l’automobile, lo stesso vale per la lavabiancheria, il frigorifero, ecc., tu compri, dobbiamo contrattare gli stipendi, c’è un intervento sindacale che dice: "tu mi devi un certo salario perché io voglio comprarmi questo e quest’altro" un salario che corrisponde ad una lista di consumi, non solo l’automobile. C’è una specie di bilanciamento o conflitto tra i profitti e i salari, ma non viene discusso il paradigma fordista, perché la discussione avviene all’interno di questo paradigma, quanto debba andare al profitto, quanto agli investimenti, quanto al salario operaio, ma non c’è una discussione sul modello di vita fordista e post-fordista.

E la cosa è ancora più complessa, perché le automobili continuano ad andare e andranno anche nella famosa Cina; e posso sperare che in Cina si mantenga anche un po’ di programmazione, cioè che non si facciano bloccare nel vicolo di una esagerata individualizzazione dei problemi. Se i problemi vengono lasciati totalmente al rapporto tra il capitale e l’individuo, in veste di compratore e consumatore, non c’è soluzione. Questo lo si vede nella differenza fra l’Europa e gli Stati Uniti, perché l’Europa ha capacità di programmazione e fa dei controbilanciamenti. A Bruxelles tutti parlavano di liberalizzazione, sia ben chiaro. Nessuno ha parlato a favore della pianificazione come si poteva intendere 20 anni fa, ma tutti dicevano che occorrono dei controbilanciamenti; un inglese, Cheshire, ha detto: "sono a favore del mercato perché è uno strumento per la competizione". L’ha detto tre volte "uno strumento, è uno strumento, non è un obiettivo, è uno strumento per ottenere migliori prodotti" e continuava a ripeterlo... l’obiettivo è l’equilibrio ambientale, il benessere, e tutte queste cose. Questo discorso che si faceva a Bruxelles, non si fa per esempio negli Stati Uniti. Anche in Cina se ne farà uno diverso; ma mi pare che ci sia questo problema degli strumenti di programmazione. In particolare, c’è bisogno della programmazione urbana.

Propongo su questo tema una formuletta, perché naturalmente qualcuno potrebbe dire: "adesso tu vuoi regolare i destini individuali, io la casa me la faccio dove mi pare, ho l’automobile, vado a spasso, voglio essere libero, non voglio perdere tutte queste cose". Io sostengo in qualsiasi sede che le condizioni complessive della nostra vita sono una questione sociale, tanto è vero che ci preoccupiamo della questione ambientale, altrimenti potremmo stare col vecchio presidente degli Stati Uniti Reagan che diceva: "Se tu sei preoccupato per l’ambiente, ti compri un’automobile con la marmitta catalitica e se non sei preoccupato te la compri senza". Risultato: quelli che se la comprano senza rovinano l’ambiente anche per quelli che hanno comprato quella con. Non capiva che c’è nell’ambiente una dimensione sociale, che si regola a livello sociale: vuoi fare il piano energetico della città che va d’accordo con Kyoto? Se lo fai, allora tutta la città viene rivisitata, dall’automobile alla lampadina. Se non lo vuoi fare vai avanti così. Allora, c’è un problema, che la città è una parte importante delle condizioni sociali di vita e va regolata; certo ci possono essere diverse opinioni, ma vanno regolate a livello sociale. Fatta questa regolazione, ognuno si prende la casa dove vuole, e a seconda dei soldi che ha; ma ci sono due livelli da trattare, cioè condizioni di vita che salvaguardino le scelte individuali ma anche gli interessi d’insieme. Riemerge così la questione dell’automobile. Lo vedo anche da notizie interessantissime. Si parla anche dell’automobile ad emissione zero, ma vuol dire che è ad idrogeno e che quella automobile lì è a emissione zero, ma il suo ciclo non è a emissione zero, ossia la sua impronta ecologica non è zero. Parliamo poi di efficiency of a representative car: il miglioramento tecnologico va realizzato, ma da solo non è risolutivo. Cos’è che potrebbe essere risolutivo? Intervenire sulle condizioni di vita e sulla cultura degli individui. Se noi riflettiamo, le ore che passiamo in automobile sono pessime per la nostra vita. Si aggiungono al nostro orario di lavoro. Sono partito ieri da Bruxelles alle 7 del mattino per prendere l’aereo che parte alle 8.10 da Bruxelles per Roma: l’autostrada era piena di gente, alle 7 del mattino. Domando al tassista: "scusi, ma come mai c’è tanta gente alle 7 del mattino, a Roma ce n’è di meno a quest’ora". Risponde: "Perché questa autostrada alle 8 è bloccata. Chi vuole fare questa strada, deve uscire alle 7, alle 7 e mezza sono già guai, alle 8... è bloccata" "E’ sempre stato così?" "no, peggiora ogni anno", "e allora?", "e allora tra 4-5 anni si alzeranno alle 5...". Succede che in questa situazione non regolativa ognuno soffre del risultato di tante azioni individuali, prive di un progetto comune e quindi desocializzate. Il risultato è che l’individuo viene colpito addirittura nella sua vita quotidiana, per cui se non vuoi restare bloccato, ti alzi alle 5 del mattino. Se invece accetti di stare bloccato, come accade in una grande città americana, stai tranquillamente un’ora e mezza in macchina all’andata e un’ora e mezza al ritorno. Un pianificatore americano di trasporti, persona altamente qualificata, a Los Angeles, disse: "sto diventando un esperto di musica sinfonica", perché ascoltava ogni giorno tre ore di musica in automobile, andata e ritorno dall’ufficio. Complimenti per la musica, minori complimenti per la attività di programmatore. Prima conclusione: non abbiamo soluzioni puramente tecnologiche. Sono interessato alla tecnologia ma la soluzione puramente tecnologica, in particolare per l’automobile, non è sufficiente e quindi occorre puntare sulla socializzazione di questa consapevolezza: io ce l’ho, voi ce l’avete, spero che domani ce l’abbiano molte altre persone e ce l’abbiano i Governi; questa idea che l’unica mediazione tra il compratore e il venditore sia quella di prezzo e del confronto diretto di forze economiche, es. lo sciopero, che sia questa e che ci sia solo questa, più la introduzione di tecnologia innovativa, e che questo sia tutto, per me non va bene.

Ritengo quindi che bisogna analizzare il fordismo e criticarlo, nel senso buono della parola cioè vedendone i vantaggi e aprendosi ad un pensiero postfordista. Questo pensiero certamente adopererà strumentazioni tecnologiche postfordiste, questo è sicuro, più telefono, calcolatori, disponibilità di dati, internet, ecc. Prima di tutto si devono utilizzare queste tecnologie per evitare dei movimenti che uno non desidera: es. documenti.. perché io devo andare alla anagrafe a fare la fila per avere un documento? Devo fare la fila, devo passare un’ora nel traffico ... la soluzione è quasi ovvia, basta mettere un centro di quartiere, a basso costo, con un impiegato che sia collegato con tutte le sorgenti di informazione. Si va lì e l’operatore ti deve dare il tuo certificato. Ci vado a piedi, vicino a casa mia. Ce ne deve essere uno a distanza di piedi da ogni punto, in modo che io a piedi vado lì, faccio una fila di tre persone e ottengo il certificato. Queste sono cose evidenti, tutte le possibilità dell’accesso ai dati, l’informatica, agenzie, documenti, la disponibilità degli ospedali. Andare in giro, bussare alla porta dell’ospedale ... "scusi, c’è un posto? sì, no ..." è follia che oggi si faccia questo. Quindi l’utilizzo dell’informatica, come viene utilizzata nelle fabbriche può essere utilizzata nelle città e migliorare le nostre condizioni.

Però francamente non basta. Abbiamo già detto del posto informatico a portata di piedi. Il concetto ora va allargato. La mia proposta è che si rilanci il concetto di zona urbana compatta ad alta qualità e ad alto grado di autonomia. Invece di accettare il modello americano con tutte le villette distanti una dall’altra, per cui per forza uno prende l’automobile, dobbiamo pensare alla grande tradizione europea che abbiamo, la tradizione italiana, la distinzione romana tra urbs e civitas; urbs sono le mura, le case, l’hardware e civitas è il software, civitas sono le relazioni sociali, la società. Le tecnologie informatiche possono fare dei collegamenti civitas-urbs. Dobbiamo operare su questi livelli e dobbiamo fare in modo che un cittadino che sta in un nucleo urbano abbia minori obblighi di muoversi. Se desidera muoversi perché ha un amico dall’altra parte della città si muoverà. Credo che con un po’ di impegno, almeno un 30-40% delle ragioni di muoversi potremmo filtrarlo... Se si ottiene un altro miglioramento del 30-40% attraverso la tecnologia dell’automobile possiamo applicarlo alla domanda di movimenti che è restata producendo effetti aggiuntivi. Allora il problema ha soluzione; da 100 di oggi, con due tagli così forti lo riduco a 40% e siamo alla sostenibilità. Non si perde in benessere, perché, secondo questa impostazione, trovi a piedi tutto il necessario. Le tue relazioni personali ... quelle ce l’hai dove ce l’hai; tra l’altro ti muoverai molto meglio perché sia che tu ti muova con mezzi pubblici - come propongo - sia che vuoi usare l’automobile, avrai una città molto più scorrevole, consumerai meno, avrai rendimenti maggiori e meno danno di vita. I cittadini avranno nuovamente rapporto con il territorio. Quindi la sostanza è che dobbiamo conseguire dei risultati dovuti alla multidisciplinalità dell’approccio circa pari a quelli che si ottengono con la tecnologia, e questo è il punto centrale della mia proposta, tanto dalla socialità, tanto dalla tecnologia un "doppio binario". Questo vale soprattutto per l’automobile, ma poi potrei fare altri esempi per mostrare che ci sono, anche in altri casi, delle possibilità di soluzione ad esempio nel problema dei rifiuti urbani. Vado alle conclusioni. Non possiamo più fare le piste ciclabili come in passato, per lo stesso motivo dell’automobile. A Roma, ad esempio, io sto vicino a San Pietro, dove c’è una bellissima pista ciclabile che va verso il Foro Italico. Ha pochi ciclisti; è ciclabile.. ma è poco ciclata; allora non produce tanto risparmio, perché il risparmio è un problema di qualità e di quantità; si vedono radi ciclisti... perché sono pochi? Beh, non è stata fatta un’analisi multidisciplinare. Prima di tutto i ciclisti si prendono la cattiva aria lo stesso. Secondo, la pista non è collegata con punti urbani di interesse. Il problema dello spostamento in bicicletta non è studiato, viene fatta la pista e basta. Terzo, non c’è un messaggio culturale, un dibattito coi cittadini in cui si spiega questo. Quarto, la pista ciclabile sta lì e il resto della città è come prima; cioè è una cosa aggiunta, una meteora. In Germania, in tante città tedesche da 100 mila abitanti, vanno in bicicletta anche se non hanno la pista ciclabile perché sono abituati ad andare in bicicletta. E’ anche una questione di cultura e abitudini. Noi dobbiamo rilanciare la bicicletta. Ma questo si lega a ciò che dicevo prima: rilanci la bicicletta, rilanci anche andare a piedi, certo... Allora vedete che non si possono più fare proposte di piste ciclabili senza occuparsi dei soggetti. L’associazione ambientalista tipica cosa fa? Chiede la pista ciclabile. Poi va dall’assessore e insiste fino a che l’assessore lo mette nel bilancio e fa la pista ciclabile, che poi è poco ciclata. Il vantaggio è debole e quasi produce un controeffetto: è come i vecchi pannelli solari; che non funzionavano e generavano persone arrabbiate, per cui se qualcuno gli parlava di pannelli solari, rispondevano in malo modo perché oltre ad avere avuto danni di funzionamento, venivano anche canzonati dagli amici. Quindi, l’analisi multidisciplinare e a pieno ciclo è indispensabile e noi dobbiamo fare delle proposte che abbiano queste caratteristiche, che integrino l’aspetto tecnologico-ambientale dentro il contesto.

Propongo il concetto: prodotti, contesti, soggetti. Allora: il prodotto è la bicicletta. Va benissimo. Il contesto qual è? Il contesto urbano. Ma la bicicletta non è stata contestualizzata, quindi il contesto non c’è. Poi ci sono i soggetti; analisi dei soggetti: ci andranno i soggetti romani? No, non ci vanno. Quindi dei tre - prodotto, contesto, soggetto - c’è solo il prodotto. E quindi non funziona. Facciamo un discorso prodotto-soggetto-contesto completo. Impariamo dalle aziende che fanno marketing. Non riesco a capire perché noi che vogliamo un effetto energetico-ambientale, non analizziamo la reattività del soggetto rispetto alla proposta che facciamo.

Devo dire ancora della Cina, e poi degli strumenti, e con gli strumenti finisco.

La Cina: paese in via di sviluppo; prima vorrei descrivere la situazione oggettiva poi gli aspetti soggettivi, politici, culturali che venivano portati in campo. Situazione oggettiva: non conosco la Cina, ma conosco un po’ la Russia e mi dicono che la situazione in Cina è peggiore che in Russia, dove c’è una cattiva gestione dell’energia; bassi rendimenti, tubi di metano con perdite, non c’è neanche il controllo, non c’è una misurazione regolare dei flussi. Spero che i miei racconti basati su una realtà di 6-7 anni fa’, siano superati dalla realtà attuale, comunque c’era un discorso strano di abbondanza non misurata. Né ad alto livello, né a basso livello c’erano misure, e il riscaldamento lo pagavano a blocco; cioè tu hai una casa e paghi tot di riscaldamento allo Stato. Non è cattiva come idea, però bisognerebbe che lo Stato controllasse. Ci si potrebbe anche stare a fare un forfait con lo Stato, il Comune dice: per riscaldare casa tua mi dai 2 milioni all’anno, va bene? Poi te la riscaldo. Bene. Si può fare ugualmente anche da noi con un privato, però bisogna che chi fa questo contratto, lui stesso, controlli a fondo, metta contatori, perché deve consumare il meno possibile per soddisfare me che sono il suo cliente. Invece in Russia non è così. Mi dicono che in Cina è anche peggio: ci sono centrali a carbone con rendimenti dell’ordine del 20-22%, che del resto erano i rendimenti italiani del secondo dopoguerra. La Cina funziona a carbone, già oggi ha forti inquinamenti di zolfo; risulta dalle carte degli inquinamenti che la Cina è inquinata dal suo zolfo perché ha carbone, si basa sul carbone, e il suo carbone è ricco di zolfo, fino al 3-4%, e non ci sono filtri. Del resto anche l’Italia era così. L’Enel non voleva mettere i desolforatori 15 anni fa. Oggi la Cina è in questa situazione, e lì c’è un enorme spazio di razionalizzazione energetica e di retrofit; cioè queste centrali possono essere portate, con opportune modifiche, ad un rendimento del 40%, tutti i tubi possono essere verificati e revisionati, ecc. ... Probabilmente è possibile, a parità di consumo, raddoppiare il servizio energetico reso. Questa è una cosa che si può proporre perché può pagarsi da sola, sul posto. Poi hanno forti possibilità di fonti rinnovabili, diversi dei grandi invasi idroelettrici che vanno criticati e che loro giustificano in termini economici. Hanno fiumi più piccoli, che si potrebbero trattare delicatamente, hanno molto vento, però il punto sono le risorse finanziarie per gli investimenti: i cinesi non vogliono pagare per queste cose. Bisognerebbe definire dei modelli di rapporti internazionali in cui il grosso della spesa sia a carico del nord e in cui il sud pagherebbe solo quella parte che pagherebbe "comunque", nel senso che ai cinesi comunque il carbone qualcosa costa, anche se poco, e se con un chilo di carbone è possibile raddoppiare l’effetto di servizio – beh - allora qualche cosa i cinesi possono pur pagare, perché prima di tutto conservano il loro carbone, in secondo luogo, i trasporti avranno meno impegni per spostare i combustibili. Facciamo così, loro paghino i risparmi che avvertono sul posto, non paghino per l’effetto-serra; il nord paghi per l’effetto-serra, ma i PVS mettano in conto nell’operazione i vantaggi economici che comunque avvertono, cioè il vantaggio della modernizzazione. Su queste basi si potrebbero fare degli accordi di introduzione di tecnologie avanzate in questi paesi e di approcci sistemici e valendosi di strumenti come il CDM, Clean Development Mechanism si potrebbe anche pensare che domani potrebbero entrare in un accordo di Kyoto, creandone le condizioni. In concreto, non è solo il problema della flessibilità e del trading dei diritti di inquinamento; è altro; si dovrebbe puntare sulla modifica dei rapporti internazionali, dei rapporti di cooperazione del Ministero degli Esteri, quel famoso 0,7% del PNL che non viene dato. Viene dato uno 0,2-0,3% e malissimo. Vorrei vedere se lì dentro non c’è una parte che possa essere utilizzata per un discorso post-Kyoto, cioè per un discorso di offerta di tecnologia e accordi di nuovo tipo. Occorre creare condizioni appetibili ai paesi in via di sviluppo, altrimenti noi corriamo il rischio che qua facciamo un bel discorso - le lampadine, le automobili, la città sostenibile - mentre in Cina si lascia campo libero alla commercializzazione. I desideri di consumo individuale sono abbastanza universali. Non si può però lasciare né in Italia, né nei PVS, tutto lo spazio agli individui separati; non posso pensare che un cinese che ha i soldi per comprare l’automobile non se la compri. Io non ci credo, semplicemente. Ci sono i nuovi ricchi in Cina, che le hanno, le automobili, che consumano... ci sono molte più automobili di prima, quando era tutto biciclette. Senza intervento in casa nostra e in collaborazione con loro, verranno imitati i nostri errori.

Al contrario, quello che possono fare questi paesi, è non fare il nostro errore; loro potrebbero, nel loro processo di arricchimento - che ci deve essere - essere un po’ più saggi e più programmatori. Torno ai nostri strumenti: l’Italia, che negli anni ‘90 ha perso tempo, che non ha incentivato le fonti rinnovabili, ha un sacco di difetti che in campo internazionale pesano, perché se parliamo di eolico, di fotovoltaico, anche di pannelli solari ad acqua calda, non abbiamo alle spalle quello che ha la Germania, che è partita all’inizio degli anni ‘90 come noi. Ma, privilegiando gli aspetti di progetto, ci tengo a dire che il governo ha fatto alcune cose interessanti: primo, ha fatto quello che si chiama il renewable portfolio cioè l’obbligo di un 2% di fonti rinnovabili per i nuovi produttori, cioè tu immetti un tot e devi avere un 2% di fonti rinnovabili; quindi la creazione di un mercato. Chiediamo che si faccia qualcosa di simile anche per l’Uso Razionale dell’Energia cioè il DSM demand-side management, quindi anche sul lato domanda elettrica si possa introdurre un obbligo di una certa percentuale che provenga dall’Uso Razionale dell’Energia: per ogni tot che consumi, una quota provenga dal fatto che hai cambiato le lampadine, o sostituito un frigorifero vecchio con uno nuovo. Poi c’è tutto quest’aspetto del riciclaggio di vecchie macchine che andrebbe codificato con temi ambientali, cioè l’obbligo del vantaggio ambientale: se vuoi avere i soldi del riciclaggio, devi comprare un frigorifero che consuma metà del precedente. Poi c’è la carbon-tax, molto interessante, e qui entriamo nelle tematiche vere. A Bruxelles c’è un dibattito interessante, consapevole, le cui ricadute non sono ancora presenti; la signora De Palacio ha dimostrato un certo grado di consapevolezza, e ha indicato tre priorità, di cui la prima è la sicurezza dell’approvvigionamento, perché in Europa tendono ad aumentare le importazioni; la seconda, l’ambiente; la terza è la competitività; ha messo in fila queste tre cose, sicurezza di approvvigionamento, ambiente, competitività. Le soluzioni vanno cercate certamente in rapporti con l’industria, in accordi, in atti programmatori che dietro abbiano accordi di concertazione tra diverse parti. Gli industriali erano presenti a Bruxelles e c’erano sicuramente degli industriali cooperativi, però non posso dire che il dibattito abbia dato le soluzioni. Da parte mia, sono intervenuto, ho detto alcune delle cose che sto dicendo ora. Carbon-tax: ho parlato di tasse positive cioè di incentivi a favore di chi produce con qualità ambientali, andando oltre i livelli d’obbligo. Noi italiani giochiamo la carta della carbon-tax e non c’è dubbio che la carbon-tax è "trasformativa". Colpisco l’inquinamento, quindi modifico il mercato a favore delle soluzioni meno inquinanti.

Oltre che ad indicatori di qualità, però, abbiamo bisogno di indicatori di quantità: "io posso farvi migliorare tutte le vostre automobili, se però voi ogni giorno fate, invece che 100 chilometri, 200 chilometri o più, anche se le vostre macchine consumano la metà, il risultato non c’è". Quindi c’è bisogno di un indicatore di quantità per ogni settore, abitativo, del trasporto, degli elettrodomestici, etc. Allora, propongo che ci siano delle tasse positive per queste due categorie: una, per gli industriali che vanno oltre lo standard; quindi, lo Stato fa uno standard, anche per le case, per le automobili. Dice: "Siete al di sotto di questo? Non circolate." E deve fare standard per tutto, anche per i frigoriferi; ma a un produttore che va oltre lo standard, o addirittura che dimezza il consumo rispetto allo standard, gli si diano condizioni premianti; quindi si fa promozione dell’industriale innovativo. L’altra, una parallela promozione della città che affronta quel problema postfordista prima citato; una città che non solo fa il piano energetico, che è obbligatorio, e rispetta pro quota l’impegno di Kyoto, ma introduce soluzioni innovative di tipo multidisciplinare-integrato, di cui ho fatto un esempio (il nucleo a forte autonomia con informazioni); introduce innovazioni dell’assetto urbano e del rapporto tra l’assetto urbano e i trasporti tali che quando si fa il bilancio ne esce che la città è andata oltre Kyoto. Bene, a questa città, a questo sindaco, occorre dare soldi pubblici, con una certa regola, così vince anche le elezioni e si presenta ai cittadini con ragioni per essere rieletto. Insomma, ci vuole una promozione pubblica della città di qualità. Questo, grosso modo, è il campo delle proposte che ho in testa. All’atto di fare i bilanci, una volta eseguite le misure, si direbbe: "quella città è più brava", perché lì vivono bene, vanno meno in automobile, hanno più tempo libero vero, hanno le scuole vicino, a portata di piedi, hanno le piscine a portata di piedi, se il bambino deve giocare a tennis ce l’ha a portata di piedi, etc., sia i genitori, che i figli, che gli anziani, stanno meglio, quindi vivono meglio e consumano meno e in tal modo si creerebbero modelli imitabili in quanto successo ambientale, ma anche successo nel modo di vivere ed anche successo postfordista.

Questi sono gli strumenti principali. Le proposte in ambito ISES, di conseguenza, sono da una parte di allargare il metodo di produrre analisi di ciclo e soluzioni a pieno ciclo per l’automobile, il frigorifero, l’eolico, la città come progetto integrato; fare analisi comparative dalla culla alla tomba; e dall’altro esaminare il ciclo prodotto-contesto-soggetto e quindi affrontare tematiche che non sono risolte, da quella della pista ciclabile a quella dell’introduzione dell’eolico prendendo in considerazione i ruoli dei diversi soggetti e le possibilità di concertazione: Nel Mezzogiorno vi sono problemi d’accettazione delle fonti rinnovabili e in particolare dell’eolico. Mi sorgono dei dubbi che nel Mezzogiorno lo rifiutino, perché il soggetto vede queste introduzioni come un pugno in faccia, difende il panorama, difende lo status quo, e naturalmente avendo sempre un pezzetto di ragione, si attacca saldamente a questo pezzetto di ragione. Poi ci sono i pannelli solari che trovano il blocco urbanistico a difesa dei valori del paesaggio urbano e anche lì c’è il problema prodotto-contesto-soggetto, e il soggetto dello status quo si difende: "io ho un valore urbano da difendere" ma bisogna che il valore ambientale e il valore urbano si integrino e che la proposta sia integrativa. Non si può dire: "metto l’eolico sulle coste sarde e me ne infischio perché dobbiamo salvarci dall’effetto-serra"; dobbiamo integrare la questione ambientale con il territorio e con il modo di vivere.